Storia del Santuario

Il Santuario della Madonna di Costantinopoli risale al  XVII secolo ed è ubicato  sulla riva destra del fiume Lao, nei pressi di Papasidero, in uno scenario naturale di particolare suggestione e bellezza.

Ha pianta a T con tre navate e tre campate scandite da archi a tutto sesto poggianti su pilastri quadrati. Tre finestroni tribolati per parte si susseguono sui due lati più lunghi; a destra dell’edificio svetta un tozzo campanile a base quadrata e cuspide a piramide, dietro il quale resistono schegge di un antico affresco di modeste dimensioni.

La chiesa si raggiunge attraversando un ponte fatto costruire da Nicola Dario  nel 1904 sopra la campata ancora visibile di quello medievale anticamente denominato della Rognosa.

L’antico nome del ponte  porta ad ipotizzare la preesistenza nell’area dove ora sorge il Santuario, di una spoglia chiesetta tardomedioevale di cui è riprodotto l’impianto nell’affresco della Vergine omonima custodito nella cappella di S. Sofia, dove compare un edificio a navata unica e campaniletto a vela, che, durante l’epidemia del 1656 che dimezzò gli abitanti del paese, venne  utilizzata come lazzaretto, grazie alla sua ubicazione fuori dal perimetro urbano.

Il termine Rognosa, infatti, può essere benissimo associato alla pestilenza che afflisse l’abitato.
La calamità del 1656 indusse, inoltre, i Papasideresi a conferire alla Vergine di Costantinopoli, mediante un’assemblea popolare svoltasi il 26 maggio 1665, il patronato cittadino al posto di San Rocco, a cui fu conferito  il titolo di conpatrono.
Fu in conseguenza dell’elevazione della Madonna a patrona di Papasidero che il primitivo edificio venne ampliato.
Dal 1679 si istituì la festività di precetto nel primo martedì dopo Pentecoste e venne attuato un primo ingrandimento della fabbrica con una notevole elevazione del piano di navata rispetto al letto del fiume, cui seguirono, a definizione della odierna fisionomia con impianto a tre navate, altri rimaneggiamenti sul declinare del Settecento e nella prima parte dell’Ottocento.
Nell’interno si conserva un affresco di circa mt. 2×3 sulla parete rocciosa di fronte all’altare  che Biagio Cappelli, in un saggio del 1936, assegnò erroneamente al XIV secolo, mentre oggi si può senz’altro affermare, a seguito dei restauri operati dopo il terremoto del 1981, che va datato alla seconda metà del XVII secolo.

Nell’esecuzione dell’Opera si possono riconoscere tre fasi:
La prima fase ha visto l’esecuzione della Vergine in trono col Bambino sul ginocchio sinistro e l’Arcangelo Michele  vestito di corazza nell’ atto di trafiggere con la lancia il diavolo emergente dalle fiamme ( queste due ultime figure sono emerse con i restauri del 1983).
La seconda fase, di poco posteriore o forse contemporanea alla precedente, ma opera di altra mano, probabilmente di aiutante poco esperto, comprende il Vescovo genuflesso a destra della Vergine.
Il terzo momento, relativo a due angeli porta corona sovrastanti un grande arco ogivale coevo alla prima fase e racchiudente tutto il gruppo, è di fattura ottocentesca.
Le figure affrescate rimandano a uno standardizzato filone iconografico della pittura controriformista meridionale che associava alla Madonna di Costantinopoli, il cui culto si propagò enormemente dopo la peste del 1656, l’Arcangelo Michele quale espressione “della teologia del controllo del cielo su Satana” e il Vescovo “ simbolo del potere e della gloria del sacerdozio gerarchico”.
Nondimeno, l’iconografia si rivela ricca di evocazioni della religiosità bizantina, il cui lascito  trapassò  nella cultura controriformistica.
La Madonna in trono col Bambino, infatti, già della grafia emula stilemi bizantini di antiche raffigurazioni mariane, in particolare quelle delle Madonne “nere” o “brune”, spesso note come Madonne di Costantinopoli e il cui culto decollò un po’ ovunque nel Regno di Napoli proprio a seguito della peste del 1656. A Papasidero, dietro sollecitazione della gerarchia ecclesiastica, la scelta e la primazia di questa Madonna furono legittimate attraverso una pubblica assemblea, trovandovi peraltro facile innesto grazie ad un terreno fertilizzato nei secoli altomedioevali dagli umori religiosi e culturali del monachesimo brasiliano.
La Vergine di Costantinopoli, che proponeva in definitiva l’Odigitria ( colei che guida), viene recuperata nel frangente epidemico anche come “portatrice di vittoria” , a riconoscimento della sua capacità di fronteggiare gli “assedi”. Una metafora dei flagelli pestilenziali e delle minacce anticristiane esorcizzati, peraltro, dalla figura di San Michele: un personaggio caro alla liturgia bizantina, ma impetrato pure come terapeuta dei mali pestiferi. E’ interessante constatare come il compito affidato alla Madonna di “vincere” la peste sia stato del tutto analogo a quello che le era stato riconosciuto con la vittoria dell’Occidente cattolico sui Turchi nella battaglia di Lepanto del 1571.
Nel nostro caso, inoltre, l’Odigitria è proposta nella tipologia della basilissa (regina) e dell’aghiosoritissa (intercettrice) col Bambino a destra. Egli con una mano tiene un libro chiuso (il Vangelo o il libro con i peccati dell’umanità), mentre con l’altra indica la Vergine. Canoni iconografici passatisti, ma ripresi in un clima artistico che nel XVI secolo aveva ravvivato un “neo-bizantinismo” pittorico largheggiante in Calabria in virtù di una presenza religiosa di rito greco.
Oltre al dipinto descritto, e alle statue in gesso della Madonna e di S. Emidio,  si può osservare  di fronte all’altare, addossato alla parete posteriore della navata principale, un soppalco in legno che sostiene un organo antico che  mostra con evidenza l’usura del tempo intorno a cui si radunava il coro  in occasione della celebrazione delle messe solenni.

Notizie tratte da:

– Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata. S. Napolitano Il basilianesimo in età bassomedioevale e moderna nella regione monastica del Mercurion.
– S. Napolitano e Giuseppina Grisolia: Il Paese grigio, Magarò Editore- Bordighera.

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